Gli omicidi del 'becchino' di Milano: la storia dell’infermiere assassino

Un ospedale milanese si trasforma in teatro di morte, ma i decessi non sono dovuti alla malattia. Dietro ogni tragico evento, un'inquietante mano invisibile che per denaro muoveva i fili della vita e della morte.

Nel cuore di Milano, presso l'ospedale Fatebenefratelli, due anziani pazienti, Giuseppe De Marchi e Ida Guardamagna, furono ricoverati in condizioni critiche nel reparto di rianimazione. Le loro vite, già in bilico a causa della salute precaria, furono spezzate non dalla malattia, ma dall'inquietante condotta di un infermiere generico: Antonio Busnelli, noto tra i colleghi con un soprannome inquietante, "il becchino".

Busnelli, 48 anni, da ventiquattro operava all'interno dello stesso reparto. Le sue mansioni, anziché essere finalizzate alla cura e all'assistenza, vennero presto scoperte come veicolo di una pratica oscura ed insospettabile: accelerare la morte dei degenti per intascare piccole somme di denaro dalle imprese di pompe funebri. Queste ultime, in cambio della segnalazione tempestiva dei decessi, gli riconoscevano delle mance pari a 50.000 lire per ogni "cliente" che riusciva a procurare.
Immagine generata con AI

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L'inizio della fine

Il primo segnale che qualcosa non andava arrivò il 30 aprile 1990, quando Giuseppe De Marchi, un imprenditore di 69 anni, fu ricoverato d'urgenza nel reparto di rianimazione. Colpito da una grave crisi cardiaca, riuscì ad essere rianimato grazie all'intervento tempestivo dei medici. Tuttavia, due giorni dopo, il 2 maggio, una nuova crisi si presentò. Anche questa volta il personale medico agì prontamente, ma le condizioni di De Marchi peggiorarono fino a culminare nella sua morte il 6 maggio. Una morte che lasciò perplessi i medici, convinti che ci fosse qualcosa di strano in quel decesso apparentemente inspiegabile. Tracce di un farmaco mai prescritto – l'Isoptin, un vasodilatatore – furono trovate nel sangue del paziente.

Il secondo caso seguì a breve distanza. Ida Guardamagna, 81 anni, fu ricoverata l'8 maggio, ma morì poco dopo il suo arrivo, sempre a causa di una crisi cardiaca. Anche in questo caso, i medici riscontrarono anomalie simili, e le fiale vuote di Isoptin, ritrovate nel cestino del reparto, fecero emergere un oscuro sospetto. Così come per Giuseppe De Marchi, anche per Ida Guardamagna fu evidente che quella crisi fatale era stata provocata da un intervento esterno.
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I sospetti

In entrambi i casi, un elemento comune emergeva chiaramente: Antonio Busnelli era presente in reparto durante i decessi. Sebbene i medici fossero riusciti a rianimare De Marchi dalle prime crisi, la sua morte avvenne in coincidenza con il turno dell'infermiere. Il sospetto fu immediato, tanto che la direzione dell'ospedale decise di trasferirlo nel reparto di traumatologia per scongiurare ulteriori eventi simili.

Il 6 giugno, il sostituto procuratore della Repubblica, Gianni Griguolo, emise un avviso di garanzia nei confronti di Busnelli, aprendo ufficialmente un'indagine. Pochi giorni dopo, il 12 giugno, furono ordinate delle perizie medico-legali per determinare le cause dei decessi. Le perizie tossicologiche confermarono i peggiori timori: i residui di Isoptin, trovati sia nel corpo di De Marchi che in quello della Guardamagna, non erano frutto di errori medici ma di un atto deliberato.

L'inchiesta proseguì per oltre due anni, e solo il 2 dicembre 1992 Antonio Busnelli venne arrestato con l'accusa di omicidio volontario plurimo. Durante l'interrogatorio, l'infermiere negò con fermezza di aver causato la morte dei pazienti, ammettendo però di collaborare con le imprese di pompe funebri per arrotondare il proprio stipendio, giudicato troppo basso. La difesa cercò di minimizzare, ma la pressione dell'accusa e le prove raccolte durante le indagini furono schiaccianti.
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Le testimonianze: una rete di prove contro Busnelli

Durante il processo, la testimonianza chiave fu quella di una collega, Delfina Tartaglia, che rivelò di aver visto Busnelli vicino al letto di De Marchi con una siringa in mano poco prima che l'uomo fosse colpito dalla fatale crisi cardiaca. Fu lei a trovare nel cestino le cinque fiale vuote di Isoptin, un farmaco che nessuno aveva prescritto ai pazienti del reparto in quei giorni.

Anche i medici intervenuti per soccorrere De Marchi e Guardamagna confermarono che le loro morti erano inspiegabili. Il dottor Enzo Crestan, che aveva rianimato De Marchi dopo la prima crisi, dichiarò che la gravità delle crisi cardiache non era giustificabile, nemmeno in pazienti con gravi problemi di salute. Inoltre, la dottoressa Annamaria Galbiati fece notare che il turno di Busnelli era considerato particolarmente funesto, poiché si registrava un tasso di mortalità inspiegabilmente alto.
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La condanna: una giustizia parziale?

Il 17 giugno 1993, la pubblica accusa chiese l'ergastolo per Busnelli. Il pubblico ministero Griguolo non lasciò spazio a dubbi: "È stato visto accanto ai pazienti, e poco dopo entrambi hanno avuto crisi cardiache. Non ci sono altre spiegazioni. Se non l'ha fatto lui, allora chi è stato?". La risposta sembrava scontata, e l'accusa insistette sul fatto che i pazienti fossero stati uccisi non per misericordia, ma per motivi meramente economici. Quelle 50.000 lire, una cifra irrisoria, avevano trasformato Busnelli in un vero e proprio "angelo della morte".

Durante il processo, la difesa cercò di sminuire il movente, sostenendo che il tasso di mortalità durante il turno di Busnelli fosse addirittura inferiore alla media del reparto. Ma le prove raccolte e le testimonianze lasciavano pochi dubbi. Busnelli fu infine condannato a 28 anni di carcere: 21 per l'omicidio di Ida Guardamagna e sette per il tentato omicidio di Giuseppe De Marchi.

Tuttavia, il caso non finì qui. La sentenza fu oggetto di ricorso, e la difesa riuscì ad ottenere un ridimensionamento della pena. In Appello, nel settembre 1994, la Corte concesse a Busnelli la libertà con obbligo di firma, ma solo temporaneamente. Nel novembre dello stesso anno, la sentenza di primo grado fu annullata e, in seguito, Busnelli fu condannato definitivamente a 16 anni e 8 mesi di reclusione.
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Un caso che ha lasciato il segno

Il caso di Antonio Busnelli continua a essere un oscuro capitolo nella storia della sanità italiana. Sebbene non si possa definire un vero e proprio serial killer, come altri tristemente noti in Europa, Busnelli fu l'emblema di una deriva morale spaventosa, in cui il denaro veniva prima della vita umana. La sua figura rimane quella di un operatore sanitario che, anziché salvare, decise di accelerare la morte dei suoi pazienti, barattando vite per poche lire.
Stefano Brigati
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