Delitti irrisolti; "L'ultima notte di Paola". Una giovane donna assassinata alla Longhignana e ritrovata nella Roggia Tremortina nel 1959
A Peschiera Borromeo, a due passi dall'Idroscalo, un cadavere affiora dalle acque in una nebbiosa alba di marzo. Un uomo confessa, ma la verità è un gioco di specchi. Cos'è reale e cos’è frutto di una mente in frantumi? Chi ha ucciso Paola Del Bono?

15 gennaio 2025

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Alle prime luci dell'alba del 13 marzo 1959, una scoperta agghiacciante scosse la quiete delle campagne attorno all’Idroscalo di Milano. Nella roggia Remortina galleggiava il corpo nudo di una donna con la testa avvolta in un golfino rosa usato come cappuccio. A notarlo fu Bruna Peletti, una sedicenne operaia diretta alla fabbrica di giocattoli, che pedalava lungo la stradina deserta. Sconvolta, corse a raccontare tutto alla vicina Angela Graziosi, che prontamente informò le autorità.
Gli investigatori riportarono il corpo sulla riva. Il dottor Desiderio Cavallazzi, durante il primo esame, identificò tre ematomi sulla testa, segni di colpi inflitti con un oggetto contundente. Una perlustrazione della zona rivelò indizi inquietanti: a cento metri di distanza furono trovati una maglietta di lana, un reggiseno in pizzo, una scarpa col tacco a spillo e un batuffolo di cotone intriso di sangue. Sul pendio erboso, quattrocento metri più avanti, giacevano delle mutandine azzurre. Non c’erano tracce della borsetta, della gonna, né dell'altra scarpa. Solo più tardi si scoprì che quella rinvenuta non apparteneva alla vittima. Mancavano quindi entrambe le scarpe.
Longhignana, frazione di Peschiera Borromeo, era un’area tranquilla di giorno, ma la notte si trasformava in un crocevia di appuntamenti clandestini dove le coppiette si ritiravano nei campi avvolti dalla nebbia.
Il mistero sull’identità della donna rimase insoluto finché un giorno una conoscente, Wanda Facchini, si presentò alla questura. Cercava notizie di un’amica, Paola Del Bono, 28 anni, già nota alla Buoncostume. Era preoccupata per la sua scomparsa. Paola, madre di una bambina affidata ad un istituto di suore, viveva con Michele Salerno in una pensione di largo Richini. Quella sera, Salerno raccontò di averla accompagnata in viale Majno dopo essere stati al cinema. Quando lei non rientrò, allarmato, chiese aiuto a Wanda. Ma il destino di Paola si era già compiuto.

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Le prime indagini
Le autorità avviarono una serie di interrogatori tra conoscenti, clienti e rivali della vittima. Oltre cento persone vennero interrogate.
Secondo le testimonianze delle sue colleghe, tra i frequentatori abituali della Del Bono c'era un commerciante bolognese che arrivava sempre con un camioncino. Tuttavia, quella sera, nessuno lo vide. Le ricostruzioni dei movimenti di Paola indicavano che aveva continuato ad incontrare clienti fino a mezzanotte. Alcune prostitute parlarono di una macchina nera che l’avrebbe caricata intorno a quell’ora. Nessuna però aveva preso nota della targa. L’informazione, per quanto intrigante, era nebulosa: qualcuno affermava di averla vista tornare dopo, altri sostenevano di non averla più incontrata. L’auto nera delle ventiquattro restava un’ombra indistinta, e il suo ruolo nell’ultima notte di Paola un nodo impossibile da sciogliere con certezza.

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La vita di Paola
Paola Del Bono aveva conosciuto fin troppo presto le asperità della vita. A diciassette anni, un giudice del Tribunale per i minorenni decretò la sua reclusione in un riformatorio a Monza, dove trascorse tre lunghi anni. Quando finalmente riacquistò la libertà, tornò a vivere con la madre, ma il desiderio di indipendenza la spinse a cercare una propria strada. I suoi sogni di autonomia, però, si infransero ben presto. Il 15 marzo 1953 diede alla luce una bambina, Ave, ma il padre della piccola era sparito già da tempo. Forse era il famigerato "Otello", un giovane toscano con problemi legali, considerato il grande amore del passato di Paola.
Tra le ombre della sua vita, vi fu Antonio Picciotto, soprannominato Mario, un fotografo siracusano di trentasette anni. La loro storia durò un paio d'anni, durante i quali vissero insieme. Tuttavia, i guai con la giustizia lo raggiunsero anche allora. Dopo l’arresto, scontò tre anni di carcere e venne poi trasferito in una casa di lavoro, dalla quale era appena uscito in licenza premio al momento della tragica morte di Paola. Picciotto aveva mostrato una gelosia pericolosa, minacciandola persino prima della sua detenzione.
I due si erano conosciuti nell’estate del 1954. Paola, per introdurre Mario nella pensione dove alloggiava in via Arco, lo aveva fatto passare per suo marito. La menzogna non durò a lungo: quando la verità venne alla luce, la padrona di casa lo cacciò. L’uomo trovò rifugio in un albergo, ma non sfuggì alla legge e presto finì in prigione.
Dopo la fine della relazione con Picciotto, Paola cercò un porto sicuro e si trasferì per un periodo con l'amica Wanda. Poi arrivò Michele Salerno, un rappresentante farmaceutico. Era diverso dagli uomini che aveva conosciuto prima. Dopo un lungo ricovero per curare la tubercolosi, nel gennaio del 1959 si trasferì con lui in un modesto appartamento di due stanze in largo Richini. Nonostante la semplicità della loro vita insieme, Paola trovò un po' di serenità.

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Il proseguo delle indagini
Il cerchio delle indagini si allargava sempre di più, e con esso cresceva il numero di sospettati. Dopo il fermo di Michele Salerno e Antonio Picciotto, altri nomi finirono sotto il mirino degli inquirenti. Tra questi, Giancarlo Villani Buongiorno, conosciuto per la sua frequentazione con Wanda, soprannominata "Wanduccia". Ma il più discusso fu Ciro Avvisato, protettore e convivente di una prostituta che, proprio come Paola Del Bono, esercitava in viale Majno. Avvisato era noto per il suo temperamento violento e, non molto tempo prima del delitto, aveva avuto uno scontro acceso con Paola proprio su quel tratto di strada.
Questa tensione alimentò l’ipotesi che il movente dell’omicidio potesse essere una vendetta personale. Gli investigatori non potevano permettersi di escludere alcuna possibilità, così Salerno, Avvisato e Buongiorno furono accusati di sfruttamento della prostituzione e trasferiti nel carcere di San Vittore. Quanto a Picciotto, già sorvegliato per la sua storia con Paola, venne rimandato alla colonia agricola di Saliceto San Giuliano, la casa di lavoro dove scontava la sua pena.

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La svolta (o forse no)
La svolta tanto attesa arrivò inaspettata il 19 marzo, un mercoledì sera. Alle 22, un uomo distinto fece ingresso in questura. Il suo soprabito sportivo e i guanti grigi mostravano una cura nell'abbigliamento, ma i suoi occhi sbarrati e la tensione visibile tradivano un'inquietudine profonda. Si dichiarò responsabile dell’omicidio di Paola Del Bono, pur affermando di non ricordare come si fossero svolti gli eventi.
L’uomo era Roberto Dalla Verde, un ingegnere trentanovenne originario di Torino, residente con la famiglia in un elegante appartamento in via Goldoni a Milano. Considerato un marito ideale e un professionista irreprensibile, Dalla Verde conduceva una vita scandita da abitudini ferree: ogni mattina lasciava casa alle 8:30, prendeva l’auto all’autorimessa vicina e si recava al lavoro in via Salvini. Pranzava in famiglia alle 13, riposava, e tornava in ufficio alle 15. A mezzanotte la sua 1100 nera era sempre in garage, e poco dopo lui si trovava a letto. Ma una sola eccezione a questa routine era stata segnalata: la notte tra il 12 e il 13 marzo, Dalla Verde riportò l’auto in rimessa solo verso le due.
Giunto al commissariato, chiese di parlare con qualcuno che si occupava del caso Del Bono. In preda all’ansia, confessò di sentirsi braccato: i poliziotti lo seguivano, lo spiavano, e la richiesta di tre fototessere per il rinnovo del passaporto aveva confermato i suoi sospetti. Temendo di essere scoperto, si dichiarò coinvolto nella morte della donna.

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I dubbi sulla confessione
Davanti al commissario Nardone, Dalla Verde iniziò un racconto frammentario e confuso. Ammetteva di aver incontrato Paola, ma i suoi ricordi erano oscurati da una nebbia mentale. I suoi gesti nervosi, il continuo movimento delle mani e gli scatti involontari rivelavano un forte stato di agitazione.
Gli investigatori, già abituati alle contraddizioni nei casi più intricati, ascoltarono con scetticismo la confessione dell’ingegnere. Le sue parole sembravano più una manifestazione di delirio persecutorio per la convinzione di essere braccato dagli inquirenti, piuttosto che un’ammissione chiara di colpevolezza. La crisi di pianto che lo travolse subito dopo l’interrogatorio confermò l’instabilità emotiva. Calmarlo richiese l’intervento medico.
Dalla Verde era un pericoloso omicida nascosto dietro la maschera del rispettabile padre di famiglia o un uomo disturbato che, prigioniero delle sue fantasie, si era convinto di un crimine mai commesso? La sua confessione, piuttosto che dissipare i dubbi, ne generava di nuovi. Se era colpevole, perché non ricordava nulla? E se era innocente, perché quella fuga mentale verso la colpa?
Roberto Dalla Verde credeva di essere colpevole. Ma le prove erano un’altra storia.

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Le ipotesi
Gli agenti perquisirono il suo appartamento e trovarono una collezione di biancheria femminile in un armadio segreto. Ma nessun capo apparteneva a Paola.
La gonna rossa di Paola Del Bono riaffiorò nelle acque al Cavo Marocco, vicino Mezzate. Fu una contadina a ritrovarla. L’indumento mostrava uno squarcio lungo lo spacco laterale, suggerendo la possibilità di una colluttazione violenta.
Gli investigatori formularono tre teorie principali per spiegare gli eventi di quella notte.
La prima ipotesi suggeriva che la donna, in preda al panico durante un litigio violento, avesse aperto la portiera dell’auto e fosse precipitata nel canale nel tentativo di sfuggire al pericolo imminente. La seconda considerava l’uso di sostanze stupefacenti: un malore improvviso potrebbe aver indotto il suo accompagnatore ad agire nel terrore, spingendola fuori dalla vettura nel tentativo disperato di evitare coinvolgimenti. Infine, il feticismo dell’ingegnere Dalla Verde rappresentava un possibile movente: una discussione nata dal desiderio ossessivo per la biancheria di Paola avrebbe potuto scatenare la sequenza di eventi culminata nella sua tragica fine.

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Gli interrogatori
Dalla Verde continuava a sostenere con convinzione di aver trascorso del tempo con Paola Del Bono in una pensione situata in via Goldoni, prima di riaccompagnarla in viale Majno. Tuttavia, il suo racconto non trovava alcun riscontro. La padrona della pensione negò di aver mai visto sia l'ingegnere che la giovane donna. Inoltre, quando gli investigatori lo incalzarono sui dettagli dell’interno della stanza dove affermava di essere stato con Paola, le descrizioni fornite risultarono completamente discordanti rispetto alla realtà. La discrepanza tra le sue affermazioni e i fatti accertati alimentò ulteriormente i dubbi sulla veridicità delle sue dichiarazioni.
Nei giorni successivi alla sua confessione del 19 marzo, l'ingegnere si rifugiò dietro continui "non ricordo" e "non lo so", alternandoli a domande enigmatiche, e suscitando dubbi sulla sua stabilità mentale. Comportamenti bizzarri rafforzarono questa teoria: rifiutava il cibo, rompeva piatti e aggrediva verbalmente chi lo avvicinava. Si scoprì inoltre che indossava biancheria femminile e si sentiva perseguitato da colleghi e conoscenti. Gli interrogatori si trasformarono in monologhi senza risposte, mentre il sostituto procuratore Pasquinoli iniziò a sospettare che l'ingegnere stesse fingendo di essere folle per confondere le acque.
L'avvocato Bovio, difensore di Dalla Verde, presentò documenti forniti da Carlo Goria, suocero dell'ingegnere e psichiatra di fama, che attestavano squilibri già presenti da tempo. Incidenti d'auto, scenate violente in casa e il consumo di polveri sconosciute completavano il quadro di un uomo sempre più distante dalla realtà.

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La confessione verosimile
Il 23 marzo, nello studio del procuratore capo Spagnuolo, Roberto Dalla Verde, dopo giorni di dichiarazioni confuse e crisi emotive, decise finalmente di chiarire la sua versione dei fatti sulla morte di Paola Del Bono. Alla presenza del commissario Nardone e del tenente colonnello Mantarro, raccontò i dettagli di quella fatidica notte.
Il 12 marzo, disse, si sentiva stanco ed abbattuto. Uscì di casa alle 21 e si diresse al cinema Cielo, in viale Piave, per assistere alla proiezione di “Gli amanti del chiaro di luna”. Rimase fino alle 23:30. Dopo il film, ancora sopraffatto dall’inquietudine, decise di guidare senza meta nei pressi di viale Majno. Mentre percorreva la strada, notò una donna che aveva già visto: Paola Del Bono, con i suoi lunghi capelli neri e gli occhi a mandorla. Era mezzanotte e mezza quando la invitò a salire in auto e si diresse verso l’Idroscalo.
Una volta appartati, l’ingegnere le offrì cinquemila lire, chiedendole un particolare favore: avere un suo indumento intimo. Paola si rifiutò con fermezza, spiegando che non voleva rivelare i segni di una recente operazione chirurgica. Irritata, raccolse in fretta le sue cose e scese dall’auto. Dalla Verde sostenne di essere uscito a sua volta per rincorrerla, ma di averla persa di vista. Subito dopo, udì un grido e un tonfo nell'acqua. Cercò la donna nei pressi del punto in cui credeva fosse caduta, ma non la trovò. Convinto che fosse riuscita a mettersi in salvo e a tornare a casa, riprese la guida e fece lo stesso.
Nei giorni seguenti, apprese dai giornali la notizia del ritrovamento del corpo. Quando il commissariato Monforte gli inviò une richiesta per tre fotografie necessarie per il rinnovo del passaporto, si convinse che la polizia fosse sulle sue tracce per l’omicidio di Paola. Questa convinzione lo spinse a presentarsi spontaneamente in questura per confessare.
Ma, secondo gli inquirenti, qui scoprì che non disponevano di prove decisive contro di lui. In un maldestro tentativo di sfuggire alla responsabilità, enfatizzò il proprio feticismo e alcune inclinazioni sessuali, cercando di sostenere una tesi di squilibrio mentale.

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La perizia psichiatrica
Roberto Dalla Verde fu trasferito nel carcere di San Vittore e affidato al reparto neuropsichiatrico, dove iniziò un periodo di osservazione. La magistratura formalizzò le accuse contro di lui: omicidio colposo, oltraggio a pubblico ufficiale e atti contrari alla moralità in un luogo pubblico.
Subito dopo fu sottoposto ad una perizia psichiatrica. Gli esperti stabilirono che non era in grado di comprendere la realtà né di prendere decisioni razionali il giorno 19 marzo quando si presentò in questura. I periti conclusero che l'uomo fosse stato sopraffatto da uno stato mentale vicino alla follia, causato da un caos di ricordi disordinati e immagini confusamente messe insieme nella sua mente. La conoscenza della vittima, e del luogo del crimine, aveva contribuito a questo turbamento psicologico. La sua mente aveva fuso elementi provenienti dai giornali e da esperienze passate, tanto che finì per credere erroneamente di essere stato lui l'autore dell'omicidio. La sensazione di colpa che provava non era dovuta ad un reale crimine, ma alla convinzione che fosse lui il colpevole, spingendolo a desiderare di punirsi per una colpa che non aveva mai commesso.

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Il mistero rimasto
Contro Roberto Dalla Verde non venne mai formalizzata alcuna accusa, poiché non c'erano prove sufficienti a suo carico. Di fatto, non poteva nemmeno essere considerato un reo confesso. Tornò così alla sua vita di sempre, quella di un marito affettuoso e di padre modello. Trascorse gli anni successivi in tranquillità, fino alla sua morte nel 1966 a Caracas, in Venezuela.
Il caso della morte di Paola Del Bono rimase senza un colpevole e venne archiviato come un delitto ad opera di ignoti.
Una strana coincidenza
Salvatore Licandro era un noto pregiudicato palermitano. Licandro, rapito il 5 giugno 1955 e poi ucciso in un regolamento di conti mafioso, passò l’ultima notte della sua vita in una pensione di via Lanzone in compagnia di Paola. I due probabilmente non si conoscevano prima di quell'incontro e il loro fu solo un rapporto fugace, durato qualche ora e confinato all'interno di una stanza d'albergo. Curiosamente, il destino li legò ancora una volta, entrambi uccisi da ignoti assassini senza volto.
15 gennaio 2025